“ BREXIT MEANS BREXIT “ |
In modo speculare i cittadini britannici dovrebbero essere trattati, nei Paesi UE, alla stessa stregua dei cittadini extracomunitari. Tuttavia, già da subito dopo il referendum del 23/6 sono stati lanciati segnali politici ben chiari nel senso di un interesse a non assoggettare del tutto i cittadini britannici alle medesime restrizioni alla circolazione ed allo stabilimento dei cittadini di un qualunque Paese non appartenente all’Unione.
Il Premier Renzi ha, infatti, di recente affermato che sono allo studio meccanismi volti ad incentivare l’ingresso di cittadini britannici in Italia soprattutto per ragioni di studio, dando la possibilità ai giovani inglesi intenzionati a studiare in un’Università italiana di acquisire in breve tempo un permesso speciale di residenza in Italia.
Tale ipotesi sembrerebbe essere stata discussa durante il recente viaggio del Premier Renzi a Berlino, ove sono stati esaminati i possibili effetti della Brexit con la Cancelliera tedesca Angela Merkel e con il Presidente francese Francois Hollande. In merito all’Italia, il Premier Renzi ha anche affermato di avere intenzione di avviare una più approfondita analisi con le migliori Università italiane (Bocconi, Cattolica, Politecnico, LUISS), le quali potrebbero accogliere sempre più studenti stranieri ed in particolar modo britannici nel nostro Paese, aumentando, così, la qualità dei percorsi di formazione accademica (con l’inserimento di molti corsi di studio in inglese), l’integrazione culturale con i giovani italiani ed anche il livello generale di competenze del mercato del lavoro italiano, grazie alla stipulazione di apposite convenzioni con le aziende presenti sul territorio per l’avvio di stage curriculari anche con i ragazzi stranieri che studiano in Italia.
I REGIMI DI SICUREZZA SOCIALE DOPO LA BREXIT
Almeno in linea teorica, la Brexit dovrebbe determinare il venir meno dell’applicabilità al Regno Unito della legislazione comunitaria sulla sicurezza sociale.
Il problema non sarebbe di poco conto perché, in assenza di convenzioni internazionali in materia, i lavoratori comunitari che si trasferissero nel Regno Unito per lavorare correrebbero il rischio di non poter totalizzare i contributi previdenziali versati in quel Paese con quelli versati nel Paese d’origine.
È auspicabile che il problema della libera circolazione delle persone e quello delle coperture socio-assistenziali e previdenziali trovi una soluzione negli accordi che il Regno Unito dovrà pur concludere con l’Unione Europea in sede d’uscita. In tali campi già esistono accordi che estendono l’applicabilità della legislazione comunitaria a Paesi non membri dell’Unione Europea. È il caso della convenzione Svizzera/Unione Europea o dell’accordo sullo Spazio Economico Europeo, che vede coinvolti, oltre all’Unione Europea, la Norvegia, l’Islanda ed il
Lichtenstein. L’accordo sullo Spazio Economico Europeo, tuttavia, pur consentendo ai Paesi che ne fanno parte di continuare a beneficiare dei vantaggi del mercato unico, non dà loro la possibilità di incidere sulla legislazione comunitaria e sui suoi contenuti.
Il che porta ad escludere, anche per ragioni di politica interna, che possa essere un’opzione davvero attraente per il Regno Unito cui, d’altro canto, non sembra che i Paesi dell’Unione vogliano almeno inizialmente garantire una tale opportunità. I diritti previdenziali, in ogni caso, sono diritti cd. “a formazione progressiva”, nel senso che il diritto ad uno specifico trattamento pensionistico matura progressivamente durante l’intera vita lavorativa e può essere sensibilmente influenzato dall’evoluzione normativa nel corso degli anni. Il venir meno dell’applicabilità della normativa comunitaria in materia di sicurezza sociale costituirebbe per certo un’evoluzione normativa avente l’effetto di mettere a rischio i diritti pensionistici maturati dai lavoratori comunitari nel Regno Unito per effetto di una legislazione poi venuta meno.
È il tema, in altri termini, dei “diritti quesiti” che, nello specifico, si declina nel diritto alla totalizzazione dei periodi contributivi maturati nel Regno Unito con quelli maturati in altri Paesi. Il mancato raggiungimento di accordi in materia con il Regno Unito rappresenterebbe un serio problema per il lavoratori che si trovano nelle condizioni anzidette.
BREXIT ED I POSSIBILI BENEFICI PER IL MERCATO DEL LAVORO ITALIANO
Nell’opinione di molti la Brexit potrebbe anche tradursi in un vantaggio per l’Italia, la quale già si candida per ospitare Autorità e/o Agenzie europee che dovranno lasciare il Regno Unito, nonché istituzioni finanziarie che potrebbero vedersi costrette ad abbandonare la city di Londra.
La capacità “attrattiva” di un Paese o di una città, però, dipende da molteplici fattori, primi tra tutti quelli del carico fiscale per le imprese (ed indirettamente anche per i lavoratori), della semplificazione burocratica – amministrativa e della legislazione del lavoro.
Su tale ultimo punto, è già allo studio la possibilità di creare zone geografiche di particolare flessibilità nella gestione dei rapporti di lavoro. L’ordinamento italiano, con i cd. “accordi di prossimità”, già contempla lo strumento mediante il quale conseguire tale obbiettivo. Si tratterebbe, infatti, di concludere apposite intese sindacali a livello territoriale (provinciale od interprovinciale) per derogare, nei limiti di legge, alle disposizioni nazionali considerate eccessivamente rigide dai datori di lavoro stranieri, quali quelle sulla flessibilità dell’orario di lavoro e sui limiti di impiego di forza lavoro cd. “flessibile” (lavoratori a tempo determinato e somministrati). Il successo di tali iniziative dipenderà dalla disponibilità delle Organizzazioni Sindacali a negoziare condizioni di lavoro diverse da quelle normalmente applicabili alla generalità dei lavoratori per agevolare lo sviluppo economico di determinate aree. In lizza, c’è già l’area milanese dell’EXPO.
I giochi sono ancora aperti ed il supporto della politica è indispensabile, anche per fronteggiare la concorrenza degli altri Paesi dell’Unione.